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IL VOLTO E LA DUPLICE NATURA

 

 

 

 

 

 

Sarebbe fin troppo facile individuare  nelle opere di D’Angelo suggestioni appartenenti alla classicità e ai suoi miti, ad un elenco  che vada  dallo struggente Pigmalione ovidiano, all’Helios votivo del Colosso di Rodi, agli ieratici e giganteschi brandelli del Costantino dei Musei Capitolini. O  più vicini a noi, alle nostalgie  di  Mitoraj per un mondo arcaico  che la contemporaneità ha irrimediabilmente perduto. O al titanico  e retorico Pietro il Grande di Zurab Tsereteli, alto quasi 100 metri. Ma anche meno   “nobili”  seppur di non minore impatto  come la terribile immagine della testa della Statua della Libertà mozzata da un conflitto nucleare nel Pianeta delle scimmie. Facile ma anche  ingannevole. Perché D’Angelo può bensì aver attinto, nelle diverse trattazioni del volto  umano, da una molteplicità di referenti visivi; e tuttavia  la sua poetica resta affatto particolare. Posto che centrale sia nelle sue sculture la duplice natura dell’essere umano, la doppia anima  al contempo apollinea e dionisiaca, razionale e irrazionale, limpida e oscura,  D’Angelo trova modo di esprimerla attraverso una complessa tecnica scultorea. Si prenda, ad esempio, Turamali: un viso   non realistico, ma classico, come di chi voglia rappresentare non il singolo individuo bensì  l’intera specie.

Dopo una rilevante quantità di passaggi che comprendono il modello in argilla, lo stampo, infine, l’opera vera e propria, lo scultore  accoppia in un’unità inscindibile una parte lucida  di bronzo ad  un’altra  nera di tormalina. Ma la materia iniziale di quest’ultima,  così come di altre sculture in marmo o in onice, è frantumata  da D’Angelo,  pervaso come da  una  sorta di furore,  e poi ricomposta al pari di un mosaico. E dunque, l’ambiguità, l’esser dell’uomo al contempo Dr. Jekill e Mr. Hide,  non è ottenuta solo dal contrasto cromatico fra  due diversi materiali, ma anche mediante  la  durata del  tempo di realizzazione,  la temporalità processuale cioè della scultura:  poiché si crea un’osmosi tra il fare e l’emozione che prova l’artista durante  quello stesso fare.

Un’ulteriore annotazione. Di questi volti – anche di quello di oltre due metri cui sta lavorando – D’Angelo scolpisce solo un  sottile strato con i tratti fisiognomici  essenziali. Come nel lacerto di faccia quasi strappata  di  un celebre dipinto di Magritte, Il doppio segreto: con la differenza che laddove  nel quadro del pittore belga si  vede una  parte nascosta colma   di  inquietanti meccanismi, nello scultore appare  un puro vuoto, una trasparenza che può essere riempita o dalla luce artificiale, o dalla presenza di una piccola sfera in ottone. Oppure, più semplicemente, dalla fantasia  dello spettatore.

di Sileno Salvagnini

"Il tocco supremo dell'artista è sapere quando fermarsi. Arthur Conan Doyle."

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